Nr. 35/2006
Rispetto della verità – Distinzione fra fatti e commenti – Diritto di essere ascoltati – Interviste

(Jäggli c. «Spendere meglio» / «L'Inchiesta») Presa di posizione del Consiglio svizzero della stampa del 2 giugno 2006

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I. I fatti

A. Nel novembre 2005 il giornalista del mensile Spendere Meglio Marco Jeitziner contatta telefonicamente Mario Jäggli – già Chimico cantonale e al momento dei fatti presidente dell’Associazione delle consumatrici della Svizzera italiana – e gli chiede se, durante la sua precedente attività avesse approvato un prodotto a base di cartilagine di squalo. Jäggli risponde di non ricordare. Alcuni giorni dopo, il 30 novembre 2005, avendo fatto qualche ricerca, Jäggli invia al giornale un e-mail in cui ricostruisce brevemente la vicenda dell’approvazione della vendita del prodotto, non nocivo per la salute, una volta che il produttore avesse provveduto ad eliminare sugli imballaggi e nel materiale promozionale qualsiasi accenno ad eventuali proprietà terapeutiche. Jäggli accenna anche ad una divergenza di vedute con le autorità federali poi appianata attraverso contatti telefonici. Berna non avrebbe in seguito mai contestato la decisione presa dal funzionario ticinese, pur avendone ricevuto immediatamente copia. Questo, per Jäggli, sottointedeva l’approvazione del suo operato da parte della autorità federali. Nel frattempo, essendo cambiata la legge, la vendita di questo genere di integratori alimentari non è più sottoposta ad autorizzazione. L’e-mail giunge però troppo tardi in redazione, l’articolo è già stato redatto da Jeitziner, titolato da Matteo Cheda, e mandato in stampa.

B. Nel numero del dicembre 2005 appare quindi l’articolo intitolato «Il difensore dei consumatori autorizza un prodotto illecito». Il sottotitolo precisa che «Da sei anni in Ticino si vendono pillole ricavate da pinne di squalo. Secondo Berna sono illegali. Nonostante ciò, il chimico cantonale Mario Jäggli ne aveva concesso la vendita.» Nel testo viene tra l’altro affermato che il prodotto in questione è illegale in Svizzera; che nel 1999 Jäggli ne ha tuttavia autorizzato lo smercio, a condizione che non ne venga fatta pubblicità sleale; che Jäggli, interpellato dal giornale, dice di «non ricordare». Con l’articolo appare una fotografia di Jäggli nella cui didascalia, in grassetto appare l’affermazione «Non ricordo». Accanto alla foto sono proposti tre citazioni estratte dalla decisione presa nel 1999 da Jäggli. L’articolo si sofferma anche sulla questione della pubblicità in veritiera o perlomeno controversa che viene fatta del prodotto sul sito ufficiale del produttore. Le proprietà terapeutiche, ad esempio antitumorali, delle pinne di squalo non sono provate. L’attuale chimico cantonale Marco Jermini non avrebbe risposto alle domande del giornale per motivi di segretezza d’ufficio.

C. Il 9 dicembre 2005 il Laboratorio cantonale dirama un comunicato stampa in cui definisce l’articolo «falso e tendenzioso». In particolare viene fatto notare che non è vero che il prodotto in questione sia illecito. Problematico è sempre stato unicamente il materiale pubblicitario che accompagnava il prodotto. Nell’articolo, viene fatto notare, la pubblicazione di solo alcuni stralci della decisione ufficiale presa da Jäggli, non aiuta il consumatore a capire la fattispecie nella sua completezza.

D. Il 21 dicembre 2005 Matteo Cheda interpella Mario Jäggli e l’attuale Chimico cantonale poiché sta preparando, per un’altra sua rivista, «L’Inchiesta», un articolo sulla medesima tematica. Ad entrambi viene chiesto di prendere posizione entro il 27 dicembre 2005. Il primo risponde con un e-mail del 22 dicembre, il secondo con un e-mail del 27 dicembre. All’inizio della propria lettera Jermini scrive che («Conformemente ai miei diritti») le sue risposte siano pubblicate per intero «senza la minima delezione o cambiamento» e che la pubblicazione delle risposte è autorizzata unicamente se potrà vedere le bozze dell’articolo. Jäggli premette alla sua risposta che la pubblicazione è autorizzata unicamente in modo «integrale e testuale» e che è ritenuta «normale» la possibilità di visionare l’articolo prima della pubblicazione.

E. L’articolo «Pillole ‹antitumore› fuorilegge» appare nel numero di gennaio 2006 de «L’Inchiesta», senza che i due interpellati abbiamo potuto vedere le bozze. L’articolo affronta la vicenda del prodotto in questione in maniera più completa del precedente, utilizzando in parte informazioni tratte dalle risposte di Jermini e Jäggli. Viene messa in risalto soprattutto la questione del materiale pubblicitario e del sito internet che decanta le virtù terapeutiche del prodotto.

F. Il 24 gennaio 2006 Jäggli invia al Consiglio della stampa un reclamo contro entrambi gli articoli. Nel caso della rivista «Spendere meglio» sarebbero state violate le direttive 1.1 (Il rispetto della verità), 2.3 (Distinzione fra fatti e commenti), 3.8 (Diritto di essere ascoltati in caso di gravi addebiti), 4.5 (L’intervista) e le cifre 3 (Omissione di elementi importanti) e 5 (Dovere di rettifica) della «Dichiarazione dei diritti e dei doveri del giornalista».

G. Nelle loro risposte del 10 marzo 2006, rispettivamente del 20 aprile 2006, Matteo Cheda e Marco Jeitziner respingono ogni addebito. Per quel che riguarda l’articolo di «Spendere meglio», le ricerche sarebbero state approfondite e le persone messe sotto accusa sarebbero state interpellate. La tesi suffragata dall’articolo sarebbe sostenuta da numerosi elementi. Per quel che riguarda l’articolo de «L’Inchiesta», non essendoci stato alcun accordo tra le parti, nessun accordo sarebbe stato violato. Inoltre il consenso per pubblicare le prese di posizione degli interpellati sarebbe stato necessario solo se si fossero usate citazioni virgolettate.

H. Il 4 maggio 2006 il Consiglio della stampa ha dichiarato chiuso lo scambio epistolare e comunicato alle parti che il caso sarebbe stato discusso dalla prima camera, di cui fanno parte Peter Studer (presidente), Luisa Ghiringhelli Mazza, Pia Horlacher, Kathrin Lüthi, Philip Kübler e Francesca Snider. Edy Salmina si è ricusato. Le richieste di ricusa di Matteo Cheda contro Francesca Snider e Luisa Ghiringhelli Mazza sono respinte da Peter Studer, poiché ritiene che non siano state fatte valere ragioni oggettive, che diano credito alla fondatezza della richiesta. La funzione di vicepresidente dell’ACSI, che Francesca Snider ha occupato per anni a titolo onorifico, non è per sé motivo di ricusa o di autoricusa. Alla controversia all’origine del reclamo Francesca Snider non è stata né è attualmente coinvolta in alcun modo. Per quanto riguarda Luisa Ghiringhelli Mazza, anche se la sua attività professionale – per molti anni esercitata a pieno regime – è attualmente ridotta per ragioni familiari, le condizioni per la sua partecipazione al Consiglio della Stampa non sono venute meno.

I. La prima camera ha discusso il caso nella sua seduta del 2 giugno 2006 e in seguito per via epistolare.

II. Considerandi

1. a) Prendendo in considerazione l’articolo apparso su «Spendere meglio» il ricorrente contesta prima di tutto il fatto che i giornalisti abbiano avuto come obiettivo la ricerca della verità (Direttiva 1.1). L’articolo – impressione rafforzata dalla scelta di titolo, sottotitolo e didascalia – sembra voler metter in evidenza il fatto che il prodotto in questione è illecito o illegale, che però si trova sul mercato a causa di valutazioni o azioni non conformi di Mario Jäggli e che lo stesso Jäggli vuole sottrarsi alle proprie responsabilità affermando semplicemente di non ricordare.

I giornalisti contestano l’accusa di superficialità, affermando di aver svolto ricerche approfondite. Sulla completezza delle ricerche non si possono fare grandi contestazioni: sono stati interpellati tutti i protagonisti, si sono consultate le autorità federali, si è consultata varia documentazione. Problematico è però l’uso che è stato fatto delle informazioni raccolte.

Dalla documentazione prodotta da entrambe le parti non sembra infatti confermata l’affermazione c
he il prodotto in questione sia illegale. Illegale è, ed è sempre stato, unicamente il tentativo del rivenditore di far passare queste pillole ricavate da pinne di squalo per prodotti con effetti terapeutici. Niente di diverso si ricava dalle informazioni dei due collaboratori dell’Ufficio federale della sanità (BAG) citati nell’articolo, Elisabeth Nellen-Regli e Urs Bänziger. Nellen Regli sottolinea che un’autorizzazione non c’è stata (con la legislazione attuale non sarebbe stata neppure necessaria). Urs Bänziger spiega che la decisione presa da Jäggli a quel tempo – che il «Samé» potesse in linea di principio essere posto in vendita, purché non si facesse pubblicità a un asserito effetto terapeutico del prodotto – non costituisce un’autorizzazione di vendita ai sensi della legge sulle derrate alimentari. Nella parte non citata nell’articolo della decisione del chimico cantonale del 23 giugno 1999 si nota che il BAG, rispettivamente la signora Nellen Regli avevano ricevuto comunicazione della decisione di Jäggli in copia. Tuttavia né la signora Nellen-Regli né il signor Bänziger sostengono, nella loro presa di posizione, che l’allora chimico cantonale Jäggli ha male interpretato la legge sulle derrate alimentari né che egli abbia, con la sua decisione del 23 luglio 1999, rilasciato un’autorizzazione illegale, contrariamente al impressione che riceve il lettore non prevenuto, leggendo l’articolo di «Spendere Meglio» su cui spicca il titolo: «Il difensore dei consumatori autorizza un prodotto illecito». La falsa impressione è che per la vendita del «Samé» non solo è stata data un’autorizzazione formale abusiva (a quell’epoca l’autorizzazione era ancora competenza del BAG) ma che l’ex chimico cantonale e attuale «difensore dei consumatori» ne avrebbe concesso la vendita pur sapendo che la legge federale veniva in tal modo materialmente violata. L’esagerazione evidente con cui sono esposti i fatti conosciuti non trova sufficiente fondamento né nella decisione del 23 giugno 1999 né nelle dichiarazioni di Nellen-Regli e Bänziger. Al contrario, se ne deduce soltanto che la vendita del «Samé» già allora era possibile alla condizione che lo approvasse il BAG e non si facesse pubblicità alle asserite virtù terapeutiche del prodotto. Si deve perciò constatare, per concludere, che «Spendere Meglio», soprattutto dando un titolo esagerato all’articolo, ha violato la Direttiva 1.1 della «Dichiarazione».

b) L’articolo di «L’Inchiestà è decisamente più accurato. Non si gioca più sull’equivoco dei comportamenti più o meno corretti di Jäggli e ci si sofferma sull’aspetto principale della vicenda, vale a dire la pubblicizzazione delle pillole in questione quali prodotto antitumorale e il mancato intervento delle autorità all’indirizzo del sito internet che pubblicizzava il prodotto. Il fatto che tale articolo appaia su un altro giornale, e non quello su cui è apparso il pezzo contestato, oltrettutto senza fare alcun accenno a quanto pubblicato in precedenza da un’altra rivista (seppur edita e scritta dalle medesime persone) non può però essere considerata una rettifica ai sensi della cifra 5 della «Dichiarazione». Il sospetto che l’articolo di «Spendere meglio» meritasse, se non una rettifica, almeno un compendio di informazione lo evoca per primo lo stesso Jeitziner, che nel suo e-mail del 1 dicembre propone a Jäggli di pubblicare le sue considerazione nel numero successivo della rivista. «Spendere Meglio» ha quindi violato la cifra 5 della «Dichiarazione».

2. Il ricorrente ritiene che sia stata violata anche la Direttiva 2.3 (Distinzione fra fatti e commenti). Tale direttiva prescrive che il giornalista metta il lettore in condizione di distinguere i fatti dai commenti. Nonostante le ripetute forzature che possono trarre in inganno il lettore, l’equivoco è però giocato unicamente sui fatti e non sulla mescolanza fra fatti e commenti.

3. Richiamando la cifra 3 della «Dichiarazione» Jäggli ritiene che la pubblicazione parziale della decisione da lui presa nel 1999 sia un’omissione di informazioni importanti. La pubblicazione per intero del documento avrebbe permesso al lettore di capire che non aveva agito all’insaputa di Berna, bensì mantenendo i necessari contatti. Il giornalista risponde che tale pubblicazione non è stata possibile per questioni grafiche e che comunque il lettore non avrebbe saputo cogliere l’importanza o il significato di certe notazioni. Tale giustificazione non può essere accolta sino in fondo. Se la questione grafica può essere comprensibile, non si capisce perché le informazioni cancellate vengono omesse anche nell’articolo. Proprio questi dettagli, spiegati con semplicità e chiarezza al lettore, confuterebbero le affermazioni – contenute anche nel sottotitolo – secondo cui Jäggli agì consapevolmente in contrasto con Berna.

4. Il ricorrente sostiene che, prima della pubblicazione dell’articolo su «Spendere meglio», è stato contattato dal giornalista durante una breve telefonata in cui gli è stato unicamente chiesto se ricordava il caso del prodotto in questione. Non sarebbe invece stato minimamente informato del reale contenuto dell’articolo, ovvero un attacco personale nei suoi confronti. Secondo la Direttiva 3.8 alla «Dichiarazione» in caso di gravi addebiti l’interessato deve avere la possibilità di esprimersi. Il giornalista, nell’articolo, sostiene che Jäggli ha autorizzato, quando era Chimico cantonale, un prodotto illecito. Inoltre viene insinuato che lo abbia fatto ben sapendo che le autorità federali erano di parere contrario e andando oltre le proprie competenze. Infine, enfatizzando la risposta di Jäggli – «non ricordo» – si vuole evocare l’impressione che lo stesso voglia sottrarsi alle proprie responsabilità, come spesso fanno gli imputati durante un processo. L’insieme di questi elementi rappresentano addebiti gravi, che danno all’interessato il diritto di esprimersi in proposito.

Il giornalista afferma di aver svolto correttamente il proprio dovere: nel corso della telefonata avrebbe illustrato all’ex-funzionario i contenuti dell’articolo e le critiche e avrebbe ottenuto come unica risposta la frase «non ricordo». Che Jäggli avesse capito di cosa di trattava sarebbe dimostrato dal e-mail spedito in redazione il 30 novembre. La lettera non evoca però l’impressione che Jäggli si esprima come qualcuno tirato in causa personalmente in una questione scottante. Contro l’argomentazione di Jeitziner sembra giocare anche l’e-mail da lui scritto proprio in risposta del messaggio di Jäggli: il giornalista comunica che purtroppo le sue considerazioni sono giunte troppo tardi. Gli riconosce il diritto di dire la sua eventualmente nel numero successivo, sottolinea che il titolo (di cui non svela la natura) è opera di altri e non sua, e afferma che l’aspetto centrale della vicenda sarebbe la pubblicità ingannevole. In realtà questo aspetto nell’articolo viene annacquato nel mare degli attacchi diretti a Jäggli. Accontentarsi di una frase d’effetto come «non ricordo» non equivale ad aver concesso all’interpellato di esprimersi sugli aspetti che lo riguardano direttamente. Nonostante la pressione a cui è generalmente sottoposto il giornalista durante le sue ricerche, in un caso simile il comportamento corretto sarebbe stato quello di informare chiaramente l’interpellato sugli addebiti che gli sarebbero stati mossi nell’articolo e di dargli un termine, anche relativamente breve, per documentarsi e dare una risposta articolata. Perciò «Spendere Meglio» ha violato la Direttiva 3.8.

5. Infine il ricorrente sostiene che nel pubblicare l’articolo su «L’Inchiesta» Matteo Cheda avrebbe violato la Direttiva 4.5 che regola il comportamento in caso di intervista. Per quel che riguarda lo scambio di corrispondenza fra Cheda e Jäggli riguardo l’articolo dell’«Inchiesta», il giornalista invia un messaggio in cui elenca una serie di punti che costituiscono la spina dorsale del futuro articolo, dando la possibilità di prendere posizione. Non si tratta di una serie di domande nell’ambito di un’i
ntervista che l’interpellato può aspettarsi di veder pubblicate così come gli sono state sottoposte in forma scritta. E‘ prassi che il giornalista, in un caso simile, utilizzi il materiale sintetizzandolo. L’importante è che non cambi il senso di quanto affermato dall’interpellato e che i punti importanti delle sue argomentazioni emergano dal testo finale. La pretesa di veder pubblicata ogni riga in maniera integrale non è realistica. La Direttiva 4.5 richiama però esplicitamente il dovere di lealtà del giornalista.

Il fatto che Jäggli tratti il materiale ricevuto come le domande di un’intervista e che chieda una pubblicazione integrale dimostra che vi è un malinteso. Per correttezza il giornalista avrebbe dovuto informarlo sul fatto che la pubblicazione integrale non sarebbe potuta avvenire, tanto più che Jäggli, duramente toccato dall’articolo precedente, e forte dell’affermazione di Jeitzinger che gli sarebbe stata data in seguito la possibilità di esprimersi, aveva grandi aspettative da questa nuova iniziativa dell’editore. Il fatto che Jäggli offra al giornale le proprie considerazioni a patto che gli sia data da leggere la bozza dell’articolo prima della pubblicazione pare una richiesta più che giustificata. Affermare che Jäggli non ne ha il diritto in quanto non vi è stato un accordo formale sottoscritto dal giornalista è sleale. Per correttezza il giornalista avrebbe dovuto informare il ricorrente con non riteneva avvenuto l’accordo sulla questione della rilettura della bozza. A questo punto Jäggli avrebbe potuto ritirare il proprio accordo a pubblicare le sue considerazioni. Per correttezza infine il lettore avrebbe dovuto essere informato di questo rifiuto e delle sue motivazioni.

III. Conclusioni

1. In linea principale il ricorso è accolto.

2. Con la pubblicazione dell’articolo «Il difensore dei consumatori autorizza un prodotto illecito» nell’edizione del dicembre 2005 «Spendere Meglio» ha violato le cifre 3 (Omissione di elementi di informazione importanti) e 5 (Dovere di rettifica) della «Dichiarazione dei doveri e dei diritti del giornalista» nonché le Direttive 1.1 (Rispetto della verità) e 3.8 (Diritto di essere ascoltati in caso di gravi addebiti) della medesima «Dichiarazione».

3. Con la pubblicazione dell’articolo «Pillole ‹antitumore› fuorilegge» nell’edizione del gennaio 2006 «L’Inchiesta» ha violato la Direttiva 4.5 (L’intervista) della «Dichiarazione dei doveri e dei diritti del giornalista».